Un mercoledì qualunque, un’ora quieta. Un’aula, un pianoforte. Un Adagio di Beethoven.
Un giovane lo suona, con la sua sensibilità, il suo impegno e con tutta la sua anima. Sento quel fuoco, quell’immenso amore per la sua, la nostra arte.
Lo ascolto: c’è qualcosa, a tratti, di quello che vive nascosto dentro le note, ma è ancora solo un germe.
Conclude. Non mi escono parole, ma solo un impulso ad alzarmi e a sedermi su quello stesso sgabello. Guardo lo spartito dentro il quale c’è qualcosa di meraviglioso.
La musica comincia e “si suona da sé”, non c’è da fare altro che seguirla, come una barca si lasca portare dalla corrente di un fiume. Non ci sono note, né tasti, né mani, né pensieri. Tutto accade da solo. L’essenza si fa suono.
Torna il silenzio, un respiro, guardo i suoi occhi e capisco che ha “sentito”.
Ricordo me allieva, nel passato. Ricordo altri allievi legati dallo stesso fuoco, un maestro che prende il nostro posto sullo sgabello, la musica che fluisce e ci porta in una dimensione nuova. Nel silenzio che segue, qualcuno con gli occhi pieni di meraviglia che dice “qui adesso è successo un miracolo”. Non sono emozioni, è qualcosa di più, qualcosa che trascende.
Accadono, talvolta, momenti magici.
Passano. Poi si ritorna alla pratica, alla disciplina, alla ricerca, alle frustrazioni. Ai mille e mille movimenti da distillare, ai mille suoni da cercare.
Serve, la mente, per tutto questo. Così, sullo stesso sgabello con lo stesso Adagio, altre mille volte si trovano solo le note, ma non l’essenza. Vale anche per i maestri.
Nella stessa aula, giorni dopo, non mi accadono affatto miracoli sotto le dita, e mi scappa una risata “Hai sentito? Quando si pensa e si cerca di ottenere qualcosa, questo è il risultato!” Ridiamo in due.
Cosa c’era stato di diverso quel mercoledì?
Non c’è stata attesa, non c’è stata paura, non c’è stato desiderio, non c’è stata ricerca, non c’è stata volontà di raggiungere o ottenere qualcosa. C’era solo la mente riempita da quell’immenso amore. C’è stato il semplicemente sedersi, il semplicemente “lasciarsi suonare”.
Tutto lo studio, la ricerca, la disciplina, la pratica di anni, sono il prezzo da pagare in anticipo, il lavoro necessario per costruire (e per mantenere) le ali che ci permettano poi, talvolta, di volare.
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Quante ore di pratica di Tai Chi coi maestri, quante ore di un’estate davanti al getto di una fontana, cercando di sentirsi, nello stesso tempo, sia forza del getto che spinge verso l’alto, sia lo scendere dell’acqua verso il basso? Quante ore a disegnare forme nell’aria, prima di sentire talvolta il movimento che “si crea da sé”?
Possiamo, a un certo punto, abbandonare l’esercizio e semplicemente muoverci. Lasciare ogni forma di ricerca, di desiderio. Lasciare la volontà. Lasciare che qualcosa di meraviglioso accada.
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Penso allo zazen. A quanto è spoglio. Nessuna musica, nessun movimento da creare. Nulla da fare.
Mi ritornano parole, e mi accorgo che sono le stesse che valgono per le altre arti.
“Se cerchi di dirigerti verso di esso, te ne allontani”
E poi, tanti “non”. Dopo aver lavorato con tutto, abbandonare tutto. Quando tutto sparisce, tutto accade.
Forse anche per lo zazen, come per altre arti, basta quell’immenso amore per qualcosa che già ci piace e che intuiamo meraviglioso.
Forse il praticare è, come per le altre arti, un modo per costruire delle ali. Non per diventare musica, non per diventare movimento, non per raggiungere qualcosa, ma semplicemente per “lasciarsi essere”.
Allora non ci sarà nulla da trovare, nulla da raggiungere. La cosa più facile e la più difficile.
Nicoletta